Scenari d’amore malato

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Primo scenario: c’è una persona con cui hai fatto l’amore quattro cinque volte, e vi siete detti ti amo, e vorrei che non ci lasciassimo mai, e vi siete giurati amore eterno. Poi hai scoperto che non era proprio quello/a giusto, hai incontrato qualcun altro, hai cambiato idea insomma.  Può succedere, anzi, a chi non è successo almeno una volta?

Secondo scenario: c’è qualcuno con cui hai passato del tempo, mesi, anni, e dopo un po’ con questo qualcuno hai deciso di mettere su famiglia, sposarti, magari hai anche avuto dei figli. Dopo un po’ però hai cominciato a sentire che non è più l’uomo/la donna che ti aveva fatto sognare, non ti piace come si comporta, quando la sera lo/la incontri, senti un certo disagio. E alla fine decidi che non puoi più vivere con lui/lei. Può succedere anche questo – l’incidenza delle separazioni, dei divorzi, degli abbandoni è altissima, sempre più evidente.

Poi però le cose cominciano a prendere una piega particolare e si verifica il terzo scenario: quel qualcuno con cui hai fatto l’amore una, tre, cento, mille volte, quel qualcuno con cui hai vissuto le nascite dei tuoi figli, i Natali in famiglia, le risate e le gioie da innamorato, diventa il nemico, la/lo detesti. Anche questo può succedere, succede a molti. Sentimenti umani, con cui si deve fare i conti. Siamo fatti di bene e di male.

Quarto scenario: quella persona che amavi, che ti amava, adesso ti ossessiona, ti odia, ti bracca, vuole la morte tua e dei tuoi figli, ti accusa di tutto il male del mondo, e soprattutto di aver creato il mostro che alberga in lei/lui e che trova una ragione di vita solo nella tua sparizione dalla faccia della terra. Questo è uno scenario terrificante, da film horror, uno scenario che hanno vissuto e che vivono troppe donne.

Frequento un grande carcere romano, ogni giovedì passo tre ore al pomeriggio, con un piccolo gruppo di detenuti, che hanno sulle spalle vari delitti e vari anni di pena. Parliamo di lettura e di scrittura, e anche dei grandi temi: libertà, perdono, amore, fede, gioia, viaggi… Ci sono omicidi, rapinatori, spacciatori, ricettatori, c’è anche un uomo che ha ucciso la moglie. Ed è lui l’unico che, nelle nostre discussioni, non riesce ad ammettere che in noi alberghino il bene e il male, l’unico che ha bisogno di cercare il colpevole fuori, da qualche parte, e una volta è Cristoforo Colombo che ha portato “la civiltà” tra i pacifici indiani d’America, e un’altra è la follia di un dittatore. Sta cercando il perdono per se stesso, per quello che ha fatto, ma non riesce ad ammettere che il problema sta anche dentro, in una natura che, comunicando con gli altri, non ce la fa a stare continuativamente ancorata alla ragionevolezza e al buonsenso, e può passare repentinamente dal bene al male e dal pensiero all’azione. Sono abbastanza convinta che il primo passo per evitare il peggio sempre è fare i conti con se stessi e con le proprie debolezze.

C’è un articolo di Elena Stancanelli sulla Repubblica di oggi a proposito della vicenda penosa di una donna che chiede disperata ai giudici di tenere in carcere il suo ex compagno che ha tentato di ucciderla già molte volte e ha cercato di uccidere anche i loro figli. E però la detenzione di lui non può essere la risposta.

Stancanelli dice: la risposta la società civile – noi – non ce l’ha: non sappiamo come opporci a questa pulsione vendicativa. Non voglio disquisire sulle motivazioni sociali e storiche che conducono un uomo del 2017 a fare fuori una donna solo perché l’ha abbandonato, e magari l’ha anche insultato, o gli ha addirittura portato via i figli e la dignità, perché sono storie personali e ognuna è diversa dall’altra, anche se tutte hanno in comune la stessa matrice: la fragilità umana e l’incapacità dei maschi di affrontare il dolore e soprattutto la rabbia che il dolore può causare, abituati come sono da sempre a respingerla con la violenza.  Non dipende dal singolo, ma da un consesso sociale che, apparentemente evoluto, non concede ancora agli uomini (e nemmeno ai bambini) di sperimentare la propria sensibilità senza tacciarli di essere, nel migliore dei casi, “femminucce”.

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Questo è argomento da psicologi e da sociologi. E invece quello che chiede la Stancanelli è: che cosa possiamo fare per salvaguardare una moglie braccata che deve cambiare continuamente casa, lavoro, città, trascinarsi dietro bambini terrorizzati da un padre violento, per salvarsi la vita? E per salvaguardare anche un marito, preda del furore vendicativo che gli dà motivo di esistere, aldilà di ogni ragionevolezza? Perché anche lui va salvato da se stesso, e non può certo passare il resto dei suoi giorni in prigione. Oltretutto in carcere non lo salverà nessuno, nessuno lo aiuterà a guardarsi dentro, nessuno farà con lui un percorso di consapevolezza profonda, nessuno cercherà di carpire il suo dolorosissimo segreto, e quindi nessuno potrà salvare né lui né sua moglie.

Che cosa si può fare? Dobbiamo studiare un modo, dobbiamo prendercene carico. E intanto anche pensare al futuro delle giovani generazioni, insegnare una grammatica dei sentimenti, impartire un’educazione sentimentale fin dalla scuola materna, per far sì che ciascuno – uomini e donne – possa crescere con almeno una vaga idea di che cosa si prova quando si ama, di che cosa si prova quando si sente la rabbia, si viene abbandonati, e, fondamentale, insegnare a stare sulle proprie gambe, ad essere centrati, a non pensare che un altro fuori di noi possa essere il puntello della nostra vita e diventi quindi il nemico quando si sottrae a questo compito che gli abbiamo assegnato. Perché nessuno è proprietà dell’altro e tutti quei “sono tua” “tu sei mio”, lasciamoli al frasario della passione amorosa, ma prendiamo coscienza del nostro essere soli che incontrano altri soli, pensandola come una cosa positiva, nell’amore per sé e per l’altro, che non deve e non può essere possesso. Mai.

Ma non ce lo insegna nessuno.