Quello che non so di lei

Anche i grandi maestri a volte sbagliano, o più semplicemente invecchiano. A 85 anni, Roman Polanski torna nelle sale con “ Quello che non so di lei “, fedelmente ispirato al romanzo “ Tratto da una storia vera “ di Delphine De Vigan. Il film racconta l’incontro tra Delphine – la protagonista del film ha lo stesso nome dell’autrice del libro – scrittrice di successo in crisi esistenziale e creativa e El – nome tradotto nella versione italiana con Lei, diminutivo di Leyla – ghostwriter bellissima e conturbante. Le due donne, conosciutesi alla presentazione del romanzo autobiografico di Delphine, appaiono subito lo specchio distorto l’una dell’altra, una disfatta, ingrassata, goffa, l’altra inquietantemente, elegante e perfetta, una autrice di best seller amata da tutti i lettori, l’altra oscura redattrice delle vite degli altri, una fragile, in cerca di sicurezza e affetti, l’altra fredda, solitaria e misteriosa. Naturalmente, il rapporto tra le due donne sfocia in un inevitabile intreccio psicotico e in un reciproco riconoscersi e avvicinarsi morboso e chiuso, che sfiora tracce di lesbismo, e si compiace di primi piani su visi, bocche truccate, sguardi, corpi, immersi nella impeccabile fotografia di Pawel Edelman.

Per costruire quello che è principalmente un film sul noto tema del metaromanzo, Polanski attinge al suo consueto immaginario di fantasmi e autocitazioni, da  “ Luna di fiele “ a “ L’inquilino del terzo piano “ fino a rimandi velati a “ Rosemary’s baby “. Il regista gioca ancora alla sala con gli specchi, riproponendo le sue tematiche preferite in modalità che vorrebbero essere nuove ma che non riescono più a esserlo. La claustrofobia e gli incubi, gli attacchi di panico e la pioggia, la solitudine e lo sdoppiamento, e soprattutto l’intreccio e il sovrapporsi di realtà, finzione e sogno. Polanski, oltre a citare se stesso in una sorta di vintage del capolavoro, copia a mani basse da film famosi, da “ Misery non deve morire “ a “ Mulholland drive “, e scomoda a ogni inquadratura la potenza dell’inconscio, trasmettendo, invece, una trama sfacciatamente dichiarata, poco convincente, scontata, dipanata tra brindisi, confessioni e blocchi creativi. Ogni passo, infatti, sembra essere la ovvia conseguenza del precedente, e la storia si dispiega in un angosciante raffronto tra donne, retto unicamente dalle interpretazioni delle due attrici.

I tantissimi ammiratori di Polanski riconosceranno comunque il suo tocco di indiscusso maestro e artista maledetto, e il film si lascia guardare con curiosità e interesse, anche se la suspence di cui si nutre, si appaga e si allontana a ogni passaggio della storia.
Un film da vedere se si desidera immergersi completamente in un’opera polanskiana, se non si è perso nessun film del regista, e si vuole ancora una volta omaggiare il suo genio, anche quando, come in questo caso, cede a una banalità confusa, una caotica ripetizione di ammiccamenti, follie e drammi, riuscendo a riscattarsi nel finale aperto, che ogni spettatore può immaginare e inventarsi come preferisce.

Titolo originale: “ D’apres une histoire vraie “
Regia: Roman Polanski
Attori: Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Perez, Josée Dayman
Origine: Francia 2017
Distribuzione: 01 Distribution
Genere: thriller
Durata: 110’