The Köln Concert – Keith Jarret

La sera del 24 gennaio del 1975, qualcosa di magico accadde all’Opera Haus di Colonia. Keith Jarrett, pianista sulla breccia da una decina d’anni scarsi, cresciuto alla corte dei Jazz Messengers di Blakey, di Charles Lloyd e di Miles Davis, da qualche anno aveva avviato una fortunata collaborazione con il produttore discografico tedesco Manfred Eicher (fondatore della storica etichetta ECM). Nel 1973 aveva inaugurato una serie di concerti (Brema e Losanna) durante i quali egli affrontava il pianoforte completamente alla cieca, senza l’ausilio di alcun supporto, in una sorta di improvvisazione totale che faceva leva non solo sulla sua esperienza nel jazz ma anche sulla sua solidissima preparazione classica (cominciò a suonare all’età di tre anni, a sette componeva già e fu allievo della Berklee School of Music).
Quella sera, Jarrett aveva chiesto che sul palco fosse portato uno Steinway, il suo pianoforte preferito, quello sul quale aveva per anni coltivato l’arte dell’improvvisazione. Qualcosa non andò nel verso giusto e lo Steinway non arrivò mai; sebbene molti dell’organizzazione cominciassero a tremare (Jarrett diventerà tristemente famoso anche per le sue sortite da primadonna), il pianista aveva chiesto che in sostituzione fosse portato uno dei due Bösendorfer che erano dietro le quinte, dopo averli provati. Ma quella sera era nata per essere speciale e, colmo di sfortuna, per un disguido, sul palco fu invece portato l’altro Bösendorfer. Tutti, Eicher compreso, erano a un passo dal gettare la spugna; ma non Jarrett che intravide in quella avversità uno stimolo in più per poter fare qualcosa di eccezionale. Con molto ritardo, il concerto ebbe inizio. Le prime note sono di attesa, come se Jarrett e il Bösedorfer fossero due belve che si stessero studiando, occhi negli occhi. Il suono del pianoforte era qualcosa che andava aldilà delle più nere previsioni; sembrava uscire da uno strumento. Gli acuti erano al limite dello stridore e i bassi al limite della sordità; davvero, chiunque avrebbe chiuso il coperchio e salutato il pubblico
I primi minuti sono la reale descrizione di una suspance vissuta in diretta, ma poi Jarrett si getta a capofitto in quest’avventura che, nel bene e nel male, segnerà il panismo jazz e new age dei successivi 20 anni. Un’avventura dalla durata complessiva di circa un’ora; il concerto si compone di 4 parti o, meglio, di due parti e quattro sezioni (part I, part IIa, part IIb, part IId).

Eicher e Jarrett, dopo aver riascoltato il nastro decisero che, nonostante tutte le avversità, il materiale registrato era “musicalmente coerente” e, grazie all’ingegner Wieland, essa fu migliorata per essere incisa. Il concerto fu dapprima edito su doppio vinile e distribuito nello stesso anno; la rivista Times, sempre nel 1975, premiò The Köln Concert con il Record of the Year Award. Nel 1978 esso aveva già venduto quasi 1.500.000 copie, cifra che raramente si sfiora nel jazz. Nel 1990 l’ECM immise sul mercato la rimasterizzazione di The Köln Concert su un unico cd, scelta rivelatasi azzeccatissima, tanto da portare a quasi 5.000.000 il numero delle copie vendute!.Nel 1974, una rivista americana si esprimeva in questi termini: “[Jarrett] è un maestro d’improvvisazione e possiede una tecnica che pianisti del calibro di Horowitz o Rubinstein potrebbero ammirare; la sua tecnica è la più notevole da Art Tatum in poi”. Jarrett non molto più in là negli anni approfondirà questo suo retaggio “europeo” essenzialmente armonico-melodico (dapprima con sodalizi artistici e poi con le incisioni di Bach, Händel, Mozart e Shostakovich), rendendo evidente anche ai suoi detrattori quale sia stato il vero impatto sul panismo jazz di questo americano della Pennsylvania. The Köln Concert è la chiave del suo pianismo improvvisativo e di come in esso l’esperienza “classica” sia messa al servizio del gospel, del rag e del jazz tutto.