Esperanto

La popolazione di Białystok è formata da quattro elementi: russi, polacchi, tedeschi, ebrei. Ciascuno di questi gruppi parla una lingua diversa e ha relazioni non amichevoli con gli altri gruppi. In tale città, più che altrove, una natura sensibile percepisce la pesante infelicità della diversità linguistica e si convince a ogni passo che la diversità di lingue è la sola causa o almeno la principale che allontana la famiglia umana e la divide in fazioni nemiche. Sono stato educato all’idealismo; mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono fratelli e intanto sulla strada e nel cortile tutto a ogni passo mi ha fatto sentire che non esistono uomini, esistono soltanto russi, polacchi, tedeschi, ebrei, ecc. Questo ha sempre tormentato il mio animo infantile, anche se molti sorrideranno su questo dolore per il mondo da parte di un bambino. Poiché a me allora sembrava che i “grandi” fossero onnipotenti, mi ripetevo che quando sarei stato grande io senz’altro avrei eliminato questo male.”

Per eliminare questo male, Ludwik Lejzer Zamenhof, un oftalmologo polacco di Bialystok, tra il 1872 e il 1879 compose una lingua nuova, semplice e essenziale. Le diede il nome di Lingvo Internacia, ma poco dopo fu ribattezzata Esperanto, dal nome del suo stesso inventore che usava lo pseudonimo di Doktoro Esperanto.

Perché parlo di esperanto? Perché è un momento in cui la divisione sembra la norma, il divario tra le classi sociali aumenta, e come spesso accade in periodi difficili, si finisce per odiare il proprio prossimo, come fosse il nostro nemico. Questo anche grazie a una politica avventata che al posto del concetto di patriota mette quello di sovranista, che invece di invitare alla pace e alla collaborazione tra cittadini, incita alla separazione.

Una o più generazioni di italiani è cresciuta con l’idea di essere cittadina del mondo e non di un solo Paese, per quanto il più bello sulla terra. Ma a pensarci bene, è un pensiero astratto, perché per avere un’identità personale si devono avere dei punti di appoggio. La famiglia, il luogo in cui si nasce e si cresce, il cibo che si mangia e la lingua che si parla, danno appartenenza. L’appartenenza dovrebbe essere una ricchezza non per separare ma per unire, per scambiare con altri unici la nostra unicità. E qui nasce il concetto di cittadino del mondo: porto con me la mia appartenenza per condividerla e integrarla con quella degli altri.

Parlare una lingua ci permette di dare un nome a ciò che pensiamo, ma anche di coltivare le sfumature del nostro pensiero. Conoscere e usare pochi vocaboli per esprimersi significa impoverire la nostra comunicazione e in definitiva, sguarnire anche il nostro stesso pensiero. “Chi parla male pensa male”, diceva il protagonista di un vecchio film. E un po’ ce lo dimostra anche la politica attuale, dove vengono usate parole forti e certamente poco scelte, per esprimere pensieri primari, che conquistano per la loro estrema popolarità un pubblico poco avvezzo alla riflessione. Ma mentre la semplicità linguistica può essere una qualità, la banalità è un peccato. Ed è vero che negli ultimi decenni, mentre si imponeva arrogantemente un linguaggio televisivo fatto di luoghi comuni spesso volgari, si faceva sempre più arzigogolata e incomprensibile la lingua della cosiddetta intellighenzia, fatta di discorsi costruiti per escludere invece che per includere. Le due tendenze opposte hanno colpito nel segno e forse partivano da un progetto comune, quello di formare sudditi e non cittadini. Il risultato è stato uno scollamento sempre più evidente degli italiani dalla politica, e una frattura nel Paese ormai conclamata.

Allora dovremmo prendere come base l’asse portante della teoria dell’esperanto: “la diversità linguistica è la principale causa che divide la famiglia umana”. Ora in Italia si parla apparentemente una stessa lingua, per quanto velata di dialetti locali, ma paradossalmente manca una lingua comune. Credo che il nostro Paese abbia bisogno come il pane di un esperanto ideale che rinnovi la possibilità di comunicare, di scambiare pensieri virtuosi sui grandi temi che ci riguardano tutti come cittadini: la salute, l’educazione, il lavoro, il benessere. Per progettare un futuro virtuoso, impensabile senza una ritrovata pace sociale.