INTERVISTA a Ilaria Palomba

Ilaria Palomba, pugliese, classe ’87, è scrittrice, poetessa e saggista. Tra le sue opere: Homo homini virus (Meridiano Zero, Premio Carver, 2015), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), per la narrativa; Mancanza (Alter Ego), Deserto (Fusibilia, Premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), per la poesia; e Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud), per la saggistica. Alcune sue opere sono tradotte in tedesco, inglese e francese, ha scritto racconti per le antologie Il mestiere più antico del mondo? (Elliot), Sorridi siamo a Roma (Ponte Sisto) e L’ultimo sesso al tempo della peste (Neo). Ha scritto articoli per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et moralia, Pangea, Succedeoggi. Ha lavorato in un centro diurno di psichiatria, conducendo una serie di interviste sul disagio nella rubrica Fuori dai bordi del blog dissipatu.blogspot.com, e co-dirige insieme a Giordano Tedoldi il blog letterario suiteitalianalt.blogspot.com.

 

1) Cosa rappresenta per te la poesia? Quale funzione ha nella tua vita?

 Ricordo, tempo fa, durante un evento letterario alla gelateria Fassi di Roma, con Antonio Veneziani e Gabriele Galloni, qualcuno chiese a Gabriele: Cos’è per te la poesia? E lui rispose: Passiamo alla prossima domanda, oppure leggo qualche altra poesia. Definirla è il modo migliore per distruggerla. Lei semplicemente esiste, come alterità sempre presente che ti attraversa. Non ha nessuna funzione, ma alcuni s’illudono che basti cercare termini difficili sul vocabolario e essere socialmente impegnati per essere poeti, beh, forse in questo modo abbiamo capito almeno che cosa non è. Poesia è solo un nome che diamo a un’apertura, a una crepa, non è un simbolo o un distintivo ma una mancanza, una frattura che deraglia nel linguaggio ma non è linguaggio, il linguaggio è la sua maschera, non la sua casa, la sua casa è altrove. Fuori.

2) Gli artisti hanno dei maestri di riferimento, quali sono i tuoi?

Ci sono dei poeti che amo: Johann Christian Friedrich Hölderlin, Rainer Maria Rilke, Emily Dickinson, Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alejandra Pizarnik; degli scrittori: Dostoevskij, Emily Brönte, Musil, Miller, Anaïs Nin, Bernhard, Morselli, Arpino, Ortese, Aleramo, De Beauvoir, e tanti altri, mi piacciono i classici, amo i classici (anche recenti ma capaci di pensare come scrittori in senso ampio, non solo come narratori), tutto ciò che tende a superare il diktat show don’t tell che ha ridotto i romanzi a sceneggiature. E poi ci sono i filosofi: Schopenhauer, Nietzsche, Cioran, Heidegger, Sartre, Deleuze, Lyotard. Maestri immortali, sempre presenti – come bussola – nella mia scrittura.

3) Ci vuoi parlare dell’ultimo libro che hai pubblicato?

 Ci sono due libri: un romanzo e una silloge, quindi Brama (Giulio Perrone Editore, 2020) e Città metafisiche (Ensemble, 2020). Brama è una storia d’amore, passione e gelosia, la storia di un’iniziazione alla cultura, ma anche la storia di una donna fragile e ambivalente, ripetutamente ricoverata in S.P.D.C. Brama è la voce di un disagio più sociale che generazionale, ora penso che scrivendolo mi sia rivolta a coloro che sono stati riposti loro malgrado ai margini dell’umanità, mi occupo del margine dal 2012, iniziai scrivendo un reportage sulla droga a Bari. Oggi scrivo di disagio in senso più ampio, tanto più che questo disagio sta diventando di massa (infatti, prevedo che a breve diventerà un argomento di moda) ma il modo in cui ho scelto di occuparmi di disagio psichico non è comune, è complesso e consta sacrificio perché, come scrive Ronald Laing, mi tocca attingere alle mie potenzialità psicotiche, a volte fa male, se ne esce a pezzi.

Città metafisiche è un libro che consideravo leggero, ma la prefazione di Gabriele Galloni mi smentisce, lui scrive che questa silloge racconta il dolore di appartenere al mondo. Per me era l’ultimo di una trilogia: Mancanza-Deserto-Città metafisiche, dove Mancanza era il grido, Deserto lo sprofondamento e Città metafisiche il paesaggio, la ricomprensione nel tutto.

4) Hai un nuovo lavoro in programma?

 Troppi. C’è il libro di interviste – fatte tra il 2018 e il 2019 – sul disagio psichico, la nuova silloge in lavorazione, una distopia che ho scritto anni fa (prima del Covid-19), un diario-filosofico che sto scrivendo a partire dalla scorsa estate (ma non è un diario di quarantena, è un diario di perdizione e redenzione), e un lavoro a quattro mani appena concluso. Devo trovare un agente letterario, al momento, tra tutte queste opere, non saprei da dove iniziare. Penso di avere abbastanza materiale da potermi fermare per i prossimi dieci anni, anche perché ultimamente avrei voglia di studiare – cosa che sto facendo – studiare soltanto, non produrre niente; c’è inflazione di libri, di pubblicazioni, ce ne sono davvero troppe, se chiedi al panettiere, al ragioniere o al tuo medico curante, puoi giurarci, avrà un libro nel cassetto.

 5) Per chiudere l’intervista ci regali una poesia che per te ha un significato particolare?

 

Cercava sempre
nel silenzio degli altri
e ogni volta il silenzio
era più forte, assente.

 

Cercava oltre il muro
la via della parola
che perde ogni senso
senza alcun suono.

 

Non incontrammo la
vita, ne eravamo sazi,
vuoti. Vedemmo solo
l’ombra di una luce

 

incomprensibile, innominabile,
priva di forma e grandezza,
una luce celeste e freddissima.
Aspettammo seduti sul crinale.

(da Inverno, inedito, 2021)