Camminando (4)

Solitudine e silenzio

Solitudine e silenzio

Camminare diventa un atto quasi nostalgico, di resistenza nei confronti di tutti i mezzi di trasporto di cui disponiamo oggi, dei voli low-cost che ci possono portare ovunque nel mondo con facilità. Tra l’altro, ormai persino le visite turistiche e culturali si possono fare virtualmente e comodamente in poltrona, dal computer o dal cellulare. Una volta si camminava per necessità, oggi lo si fa per hobby, come attività del tempo libero, per cercare tranquillità e silenzio.

In un mio vecchio articolo avevo parlato del valore della perdita di tempo e del silenzio, ricordando come – oltre alla velocità – la modernità ci abbia anche regalato la cultura del rumore: ovunque un telefonino che squilla, una musica che rimbomba da un altoparlante, un vociare di persone… L’unico silenzio che la società moderna conosce, e di cui è terrorizzata, è quello del guasto alla macchina, dell’interruzione delle comunicazioni, del blackout.

Il silenzio è una risorsa morale, un modo per raccogliersi in se stessi, che richiede sforzo per essere trovato, che va cercato volontariamente lontano dai luoghi battuti della “civiltà”. Una campagna, un monastero, un bosco, un parco, un giardino. Nel silenzio di questi luoghi siamo più capaci di ritrovare pace interiore e forza d’animo, molto spesso indispensabili quando dobbiamo prendere decisioni difficili. Anche perché sono tutti luoghi raggiungibili soprattutto a piedi. Ma meglio se da soli: silenzio e riflessione non si addicono granché alle gite in compagnia. È soprattutto il cammino solitario che c

i rende liberi e padroni di noi stessi. Rousseau diceva di non essersi mai sentito così vivo e così “se stesso” come nei momenti in cui viaggiava a piedi da solo. La marcia solitaria è contemplazione del mondo all’insegna della libertà: soltanto da soli siamo davvero liberi di fermarci o proseguire, di andare dritti o svoltare, a destra o a sinistra, di procedere all’andatura che vogliamo.

Solitudine, silenzio, lentezza. Tutte caratteristiche, soprattutto le ultime due, che il viaggio moderno sta perdendo. Le strade di oggi sono fatte sempre più per la velocità, per essere aggredite da pneumatici, che schiacciano imperturbabili tutto ciò sui cui passano. Il concetto di strada è peraltro legato alla civiltà: quando non sono spazi urbani ricavati tra edifici, le strade sono ferite arrecate alla Natura dagli esseri umani. Ferite che non vengono invece lasciate dagli animali, le cui tracce nell’ambiente sono impercettibili e poco invadenti, così come lo sono d’altronde quelle dei camminatori rispettosi, i cui piedi non hanno l’aggressività dei veicoli e al cui passaggio la Natura resta pertanto indifferente.

Le strade sono un’entità antichissima, risalente ai primi ominidi. Ma solo da poco sono dominate da veicoli e povere di pedoni. I nostri antenati erano costretti a camminare per spostarsi, anche per lunghi tragitti, mentre oggi per noi camminare è diventata una scelta, come abbiamo visto. E purtroppo anche gli spazi si adattano di conseguenza: ormai chi vuole andare a piedi deve vedersela con autostrade e superstrade che tagliano i loro percorsi, mentre i vecchi sentieri sterrati vengono asfaltati o comunque adattati per permettere alle auto e ai “fuoristrada” di penetrare nel bosco o nella foresta.

Spesso per promuovere turisticamente una zona si creano infrastrutture stradali che non tengono conto dei pedoni, a meno che non ci si accontenti di itinerari dedicati, già tracciati e predefiniti. Ma di spazi indefiniti, quelli in mezzo alla Natura, quelli che suscitano sorprese e scoperte, ce ne sono sempre meno. L’industria turistica, per rendere fruibili dal pubblico luoghi rari e preziosi, alla fine li banalizza, ne distrugge l’atmosfera e il fascino. Esistevano tanti luoghi magici, cui si giungeva dopo ore di cammino, che ci garantivano solitudine, silenzio, bellezza, invasi ormai da masse motorizzate (e chiassose) che vi arrivano facilmente grazie alle nuove strade.

(4 – Continua)