Emilio e la Rossa pt.II

Emilio e la Rossa pt.I

Chi poteva citofonare di Sabato a quell’ora?

La sua mente andò inspiegabilmente alla chioma rossa della Renault, si stupì di sé stesso. Negli ultimi giorni riconosceva in lontananza la macchina parcheggiata, si distraeva un attimo e, quando si riaffacciava alla finestra non la vedeva più, come fosse svanita nel nulla. Nel delirio a 40 gradi di una sera afosa aveva addirittura pensato di averla immaginata. Forse la vecchia Renault non esisteva, o non esisteva la Rossa, come ormai l’aveva soprannominata. Forse la sua mente stava perdendo colpi sotto l’angoscia della solitudine e dell’isolamento forzato. Aveva creato un personaggio conturbante, sprezzante delle leggi stradali, gli aveva dato un volto, un lavoro creativo, forse nel cinema, scenografa? Aveva addirittura immaginato come sarebbe stato prendere un caffè nella sua casa, sicuro condivisa, dove non avrebbe trovato due tazzine uguali.

“Emì, so Giacomo del piano di sotto, mi so scordato le chiavi, che me apri?”

Niente, era solo Giacomino, il figlio maggiore della famiglia del secondo piano, un 17enne che come tutti i suoi coetanei è convinto di aver capito tutto della vita e che, giustamente, si comporta di conseguenza. Un ragazzetto buono, simpatico, ma sempre pronto a far impazzire i genitori con ogni genere di avventura folle: prendendo treni senza meta e senza biglietto, tornando a casa quando già era mattina inoltrata e portando in giro la sorellina più piccola nei peggiori bar della città. Almeno questo era quello che raccontava la madre, gli occhi al cielo, quando gli capitava di incontrarla nel cortiletto interno del palazzo.

Gli aprì e ne approfittò per affacciarsi alla finestra, ormai riusciva a stare quasi in piedi con il ginocchio, anche se il dottore gli aveva detto di non sforzarlo troppo. Le sue finestre erano alla francese, permettevano quindi di uscire fuori, anche se per pochi centimetri. Il suo amico Andrea vedendo l’appartamento per la prima volta l’aveva deriso ‘ahh poi qua ci facciamo un barbecue eh, Emì”.

“Graziee”

Urlò il ragazzo guardando in alto mentre spingeva il portone con il gomito, gli occhi fissi all’Iphone. Emilio abbozzò un saluto.

Sotto casa non c’era un gran via vai di solito, figuriamoci in pieno Agosto, ma c’era un bar, la cui insegna recitava orgogliosa ‘dal 1958’ e un parrucchiere, meta prediletta della nonna, che erano abbastanza per fornirgli un piccolo spaccato del quartiere. Tuttavia quel giorno c’erano solo i soliti tre signori che sembravano usciti da un filmato Luce degli anni Cinquanta e passavano la giornata appollaiati fuori al Bar a giocare a carte gracchiandosi addosso ingiurie come pappagalli stanchi. Emilio stava già pensando di abbandonare la postazione di vedetta per tornare al suo divano appiccicoso, certo che ormai la spericolata automobilista fosse solo un miraggio, quando dal nulla la macchina rossa entrò nel suo campo visivo. Nonostante fosse estate ed il posto a quell’ora di sabato ormai non mancasse, la Rossa stava parcheggiando a metà sulle strisce, proprio a pochi metri dal portone di casa sua.

Dal finestrino scalcinato si intravedeva i ricci ribelli. La portiera luccicante al sole, mostrò prima una gamba e poi un’altra. Era al telefono, purtroppo da lassù non si riuscivano a distinguere le parole, si potevano solo vedere le onde del vestitino estivo giallo a pois che seguivano gli urti della conversazione.

La Rossa passò davanti al Bar e salutò con la mano i vecchi pappagalli appollaiati fuori, che, subito ringalluzziti, risposero mettendo una pausa ai loro litigiosi garriti.

Ok, quindi era del quartiere. Per forza, chi altro poteva conoscere i Re della briscola? Pensò Emilio rimanendo a fissare il vuoto sotto di lui per qualche momento dopo averla vista scomparire dietro il consueto bivio. Strano però non averla mai vista! Se era infatti solo un annetto che si era trasferito in quell’appartamento, era da quando era nato che viveva il quartiere. Tanti suoi amici d’infanzia erano andati via, al Nord Italia, al Nord Europa o semplicemente a Nord di Roma per amore, per lavoro o per amore del lavoro, ma lui no.

I nonni si erano trasferiti lì dalla Basilicata, da un paesino grande su per giù come quel quartiere e da lì non si erano più voluti spostare, cambiato il luogo sì ma il senso di appartenenza mai. Così, il sangue di Emilio pulsava tra i vicoli stretti del rione e, pur a volte sentendo un certo prurito per l’avventura, non era mai riuscito a tagliare definitivamente quel cordone ombelicale magico e invisibile che lo legava a quelle strade. Conosceva tutti oramai, anche se, essendo ‘poco fisionomista’, anche detto ‘molto distratto’, tendeva a non ricordarsi mai un volto, né tantomeno un nome e alla fine finiva sempre per salutare gentilmente tutti apostrofandoli con un vaghissimo ‘quindi tu che mi dici?’. La verità, anche se gli faceva male ammetterlo a sé stesso, era che il lavoro da architetto gli aveva risucchiato l’energia mentale e che raramente trovava angoli di cervello dove inserire altre informazioni.

Sentì il campanello della porta e subito dopo le chiavi girare nella toppa.

“Nonna!”

Le aveva dato le chiavi per non doversi muovere ogni volta per casa con la sedia a rotelle, ma Nonna Gilda aveva preso a dare un rintocco prima di aprire, dopo una volta in cui le aveva fatto gentilmente notare di avere una privacy.

“Emii, come va il ginocchio?”

“Mah, insomma, il medico diceva che dovevo già poterlo muovere, ma ancora mi fa un male cane..”

“..senti ti ho portato un po’ di cose buone”

La nonna era già in cucina a posare sul tavolo barattoli ripieni di leccornie a livello calorico di un triplo cheeseburger: “Guarda, qui c’è un ragù di cinghiale, la carne l’ho presa da Ciro eh, mica le schifezze che ti mangi tu.. e questi invece sono involtini..”

Emilio aveva tentato di diventare vegetariano, ma era durato un’estate, e neanche completa.

“Senti allora, l’hai chiamato il numero dello studio?”

Giorni prima la nonna gli aveva inviato il numero di un fisioterapista. Non solo infatti ad 80 anni aveva uno smartphone di ultima generazione molto più nuovo del suo, ma sapeva usare WhatsApp! A pensare che c’erano certi suoi coetanei trentenni che avevano problemi a mandare la posizione.

“No..”

“Ma che te li do a fare io i numeri? Chiedo in giro, faccio, dico! Pensa che questi sono riusciti a curare Rossella, ti rendi conto?”

“Nonna, non so manco chi è Rossella..”

“Ma come! Ma non mi ascolti? Rossella, la mia amica del coro, quella che era caduta dalle scale, si era rotta l’anca.. un calvario! Loro l’hanno rimessa in sesto!”

Emilio sospirò: “Va bene, va bene, li chiamo..”

“Oh, io lo dico pe te eh” disse la nonna, dandogli una vigorosa carezza sulla spalla.

Era contenta di prendersi cura di lui dopo tanto tempo, gli sembrava che fosse tornato bambino.

“Vabbe’ se ti serve qualcosa dimmelo eh, io devo andare che ho le prove di teatro.. non sai che cosa sta uscendo fuori..”

Nonna Gilda era già sulla porta. Probabilmente se fosse stata bambina in tempi più recenti le avrebbero diagnosticato un disturbo di iperattività.

Quando vide il corpo minuscolo della nonna allontanarsi giù per le scale, Emilio venne investito da una corrente gelida e palpabile di solitudine. Quella che ti tocca solamente quando sei con qualcuno che poi se ne va, il sortilegio della mancanza.

In quel momento pensò persino di ricominciare a parlare coi suoi dirimpettai, una coppia in carriera con un figlio di cinque anni con evidenti carenze affettive, che si faceva trascinare in terra avvinghiato ad una gamba ogni qualvolta i due malcapitati dovevano uscire.

Tolto il cenno e il sorriso abbozzato che Emilio non toglierebbe neanche ad Hitler in persona, non rimaneva molto del loro rapporto. Quando si era trasferito nel palazzo sembra quasi potessero diventare amici, ma, come spesso accade tra vicini, il cartongesso scadente usato negli anni Settanta per costruire la maggior parte delle palazzine della città si innalzò a distruggere le loro speranze di cordialità. La parete della camera da letto di Emilio era infatti tragicamente confinante con quella della coppia che, quando non litigava furiosamente, si dava da fare come se non ci fosse un domani. Lui ovviamente non gli aveva mai detto niente, un po’ per sua indole poco incline alla lamentela molesta, un po’ perché gli risultava difficile aprire l’argomento litigi mortali-sesso cosmico con delle persone che, per quanto simpatiche, conosceva appena.

Quando però Emilio una sera aveva invitato i suoi cinque amici storici per una rimpatriata a base di ettolitri di vino, due canne e una vagonata di ricordi, i coniugi Graniello-Traini non avevano esitato un attimo ad attaccarsi al citofono alle 21:30 (21:30!) per intimargli in modo tutt’altro che cordiale, di smetterla.

Proprio quand’era sul punto di suonare alla porta dei vicini, ripensò a questa storia, ritrasse il dito e tornò a rintanarsi nel suo piccolo appartamento dalle grandi finestre.

Gli ritornò alla mente la Rossa, i suoi ricci voluminosi, il suo vestitino estivo.. Ormai la vedeva quasi ogni giorno, ma aveva la sensazione che potesse sparire da un momento all’altro. In quell’epoca in cui tutti erano, volenti o nolenti, connessi, il fatto di non sapere nulla di lei l’avvolgeva nel fascino dell’ignoto, ma la rendeva anche eclissabile in qualsiasi momento.

Così, senza pensarci troppo, sopraffatto dalla calura e dalla clausura, chiamò a casa dei vicini del secondo piano.

“Pronto?”

“Ciao Annamaria! Sono Emilio.. del terzo piano”

“Ciao Emilio..” rispose sorpresa la madre di Giacomino “che succede? Hai bisogno di qualcosa?”

“No no, una sciocchezza” in quel momento si rese conto della follia di quello che stava facendo, ebbe un moto di pena per sé stesso, ma ormai doveva continuare. Alea iacta est.

“Mi puoi passare Giacomo per favore?”

“.. Ah, che ha fatto sta volta?” la voce si fece subito dura.

“No no, volevo chiedergli un favore..”

“Se figurati, se riesci a fargli fare qualcosa.. io non riesco neanche a farlo alzà dal divano.. Te lo chiamo, ciao Emilio.”

Dopo vari ‘Giacomoo’ sentì il ragazzo arrivare al telefono:“Ciao Emì, dimme..”

“Ciao, che puoi salire un attimo da me?”

“Mh ok..” rispose dubbioso il ragazzo “mo finisco na cosa e vengo..”

L’unica altra volta che i due erano stati da soli era quando l’aveva aiutato con i compiti di disegno tecnico ed era finita ovviamente con Emilio a fare tutte le tavole mentre Giacomino gli raccontava le nuove sfide della vita liceale, tra telecamere e registri elettronici.

Lo aspettò per oltre un’ora, stava quasi per cambiare idea quando il ragazzo gli suonò alla porta.

“Senti allora, mi dovresti lasciare questo biglietto su quella macchina rossa che sta sempre qui sotto..”

“Ok, ma quale macchina rossa emì?”

Giacomo lo guardava come fosse un paziente appena uscito da un ospedale psichiatrico, lo assecondava cauto, ma perplesso.

“Quella vecchia, che sta sempre qui sotto, una Renault rossa. Calcola ci fai caso, perché è una delle poche anni Novanta, tutta mezza rotta..”

“Ok…” l’espressione tradiva un po’ di pena. “Senti ma come va? Quand’è che ti fanno uscì? “ Gli chiese, come se fosse agli arresti domiciliari, e non momentaneamente invalido.

“Un’altra settimana così e poi piano piano.. anche perché sto impazzendo qua dentro.. Oh mi raccomando non lo dire a nessuno eh.. “

Giacomo annuì deciso, non era solito ‘mandà bevute’ le persone. Se c’era una cosa che la scuola gli aveva insegnato era che l’omertà e la vaghezza nelle risposte erano sempre un buon punto di partenza.

Gli sorrise, poi, sceso il primo gradino per tornare verso casa guardò il biglietto:

“Sono un ammiratore dei tuoi parcheggi fantasiosi, in caso fossi curiosa di conoscermi ti lascio il mio numero: +3933485****”

Madonna che soggetto, pensò e saltò come sempre gli ultimi due scalini.

Ci vollero due giorni perché se ne ricordasse. Poi, ritrovandosi il foglietto stropicciato in tasca, lo lasciò ben in evidenza sul parabrezza della Renault, attaccato sotto ad uno dei tergicristalli.

(Emilio e la Rossa pt.II)

to be continued