A che gioco giochiamo (1)

Scacco matto

Scacco matto

Il gioco è un “corpo a corpo” con il destino

(Anatole France)

Il destino mescola le carte con cui noi giochiamo  (Arthur Schopenhauer)

Il vero vincitore è chi sa perdere  (Caetano Veloso)

Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione  (Platone)

Non si smette di giocare perché si invecchia, ma si invecchia perché si smette di giocare  (George Bernard Shaw)

“A che gioco giochiamo” “fare il doppio gioco” “ogni bel gioco dura poco” “avere buon gioco” “scoprire il proprio gioco” “stare al gioco” “giocare a carte scoperte” “prendersi gioco di qualcuno” “fare buon viso a cattivo gioco” “mettersi in gioco” “giocarsi l’ultima carta”…

A parte gli aforismi d’autore che abbiamo in apertura, sono innumerevoli anche i modi di dire popolari sul gioco, che ne dimostrano l’importanza nella vita quotidiana degli esseri umani. Giocare è un nostro bisogno primario: giochiamo per divertirci, per metterci alla prova e verificare le nostre capacità, per sfidare chi ci sta intorno, per arricchire la nostra vita sociale, per comunicare e relazionarci con gli altri. Per vedere chi è più forte, noi o il destino. Chi non vuol cercare di avere la meglio in qualcosa, in qualche occasione, su qualcuno, che sia un avversario o la sorte?

Come ogni attività umana, a volte anche il gioco può degenerare, trasformarsi in una dipendenza patologica. Sentiamo ogni tanto di personaggi più o meno celebri che si bruciano rovinandosi col gioco, ma simili drammi colpiscono anche tanti comuni mortali, sebbene non ne parlino le cronache.

Ma non è di questi aspetti deleteri del gioco che ci vogliamo occupare: ad interessarci qui è soprattutto la sua natura genuina, quella che sboccia già in culla col neonato e che ha origine agli albori delle società umane.

La Storia narra da secoli di giochi sportivi e ricreativi, come i giochi olimpici dell’antica Grecia che erano sacri agli dèi ed erano il riferimento nel computo degli anni; i primi giochi di carte risalgono invece alle antiche civiltà dell’India e della Cina, mentre le carte da gioco come le conosciamo noi furono introdotte dagli arabi in Europa, attraverso la Spagna.

Uno dei giochi più antichi e allegorici è quello degli scacchi, che troviamo nella Persia del IX secolo a.C. citato dal poeta Hassan nel Libro dei Re. Tracce arabe e persiane si trovano nell’espressione “Shah mat” (scacco matto) che significa «il re è morto». Gli scacchi erano peraltro presenti anche nell’antico Egitto, dove un disegno sulla tomba di Nefertari, moglie del faraone Ramses II, raffigura la regina mentre gioca.

Sulle caselle bianche e nere – simbolo della lotta tra il bene e il male – i pezzi degli scacchi sono disposti con ordine e ognuno di essi può muoversi soltanto seguendo determinate regole: come vedremo, le regole sono un elemento fondamentale di ogni gioco. La figura più potente degli scacchi è la Regina, libera di muoversi senza vincoli, che vigila sulla sicurezza del Re scegliendo con attenzione le mosse e sfruttando la sua libertà di movimento. L’Alfiere simboleggia il guerriero che protegge la Fortezza e può muoversi solo diagonalmente, delineando i confini del territorio. Il Cavallo rappresenta la prudenza, può saltare i nemici ma ha movimenti limitati. La Torre è simbolo di forza e la linea dritta che segue rappresenta la rettitudine. Il pedone infine è il soldato semplice, l’iniziato che guarda avanti e non deve mai tirarsi indietro (visto che non può retrocedere) ma che viene elevato di rango una volta raggiunto il suo traguardo. Il fine degli scacchi è quello di imprigionare il Re senza dargli scampo, dichiarando lo scacco matto.

Lo storico olandese Johan Huizinga scrisse nel 1938 un saggio sul gioco dal titolo “Homo Ludens”: in latino giocare si dice ludere e il termine italiano deludere – che come sappiamo significa “vanificare le speranze”, “venir meno alle aspettative” – viene proprio dal latino de-ludere, cioè smettere di giocare, uscire dal gioco. Un po’ come nella frase “non gioco più” che i bambini delusi e arrabbiati pronunciano quando se ne vanno e abbandonano i compagni.

(1 – Continua)