Una poesia, una storia… Anne Sexton

Una poesia, una storia…

Anne Sexton (Newton, 1928 – Weston, 1974)

E’ il 4 ottobre del 1974 quando Anne Sexton indossa una vecchia pelliccia della madre, si versa un bicchiere di vodka e scende in garage. Morirà sulla sua Ford Cougar rossa, il monossido di carbonio porrà fine a una vita tormentata.
Il padre è un industriale nel campo della lana, la madre è discendente di politici e intellettuali illustri, entrambi sono dediti all’alcool e da sempre indifferenti nei confronti della loro figlia.
Anne appena ventenne si sposa con Alfred Sexton, spera che una famiglia tutta sua possa colmare i vuoti affettivi dell’infanzia e eliminare i demoni interiori (“Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media…Tutto quello che volevo era un pezzettino di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi. Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi”). Proverà a farlo altre volte come l’amica Sylvia Plath che si toglie la vita undici anni prima di lei (“…ci infilavamo nel Ritz a bere tre o quattro Martini…spesso, molto spesso, Sylvia e io parlavamo a lungo dei nostri primi tentativi di suicidio, a lungo, nel dettaglio, in profondità, tra una nocciolina e l’altra”). Ma dopo il primo tentativo di suicidio, si mette in cura dallo psichiatra Martin Orne che la incoraggia alla scrittura come forma di autoguarigione. Il tormento e i segreti della sua anima li raccoglierà nelle poesie con le quali ottiene il Pulitzer nel 1967 (Live or Die,1966).
Dopo la sua richiesta di divorzio nel 1973, la Sexton crolla di nuovo in una profonda depressione. Quando l’anno dopo si uccide ha solo 46 anni, è bellissima e promiscua, si imbottisce di psicofarmaci ed è alcolizzata. La morte è sempre stata una presenza costante nella sua vita, un obiettivo che alla fine è riuscita a raggiungere.
Scrive la poesia Wanting to die il 3 febbraio 1964, un anno dopo il suicidio della sua amica Sylvia Plath, (11 febbraio 1963):

 

Desiderando la morte

 Adesso che lo chiedi, la maggior parte dei giorni non me ne ricordo.
Cammino, vestita, senza portare segni di quel viaggio.
Poi, ecco che la quasi innominabile lascivia ritorna.

Persino in quei momenti, non ho niente contro la vita.
Conosco bene i fili d’erba di cui parli,
il mobile che hai esposto al sole.

Ma i suicidi hanno una lingua speciale.
Come i falegnami, vogliono sapere quali attrezzi.
Non chiedono mai perché costruirli.

In due occasioni mi sono dichiarata, con semplicità,
ho posseduto il nemico, l’ho ingoiato
ho rubato la sua arte e la magia.

Poi, pesante e pensierosa,
più calda dell’olio o dell’acqua,
ho riposato, un filo di saliva usciva dalla bocca.

Non pensavo al mio corpo sotto la punta dell’ago.
Persino la cornea, l’urina rimasta, era tutto finito.
I suicidi hanno tradito il corpo.

I neonati partoriti senza vita non sempre muoiono,
ma, stupefatti, non possono dimenticare una droga tanto dolce
che persino i bambini fisserebbero con un sorriso.

Ficcare tutta quella vita sotto la lingua! –
Quello, da solo, si trasforma in passione.
La morte è un osso triste e ammaccato, si direbbe,

eppure lei mi aspetta, anno dopo anno
per cancellare dolcemente la vecchia ferita,
liberare il mio fiato dalla sua dura prigione.

Là, in equilibrio, i morti suicidi a volte si incontrano,
si accaniscono contro il frutto gonfio della luna,
abbandonando il pane che confusero per un bacio,

abbandonando la pagina del libro dimenticato aperto,
la cosa lasciata non detta, il telefono slacciato
e l’amore, qualsiasi cosa fosse, un contagio.