Un maledetto imbroglio

 

Per appunti di cinema vi vogliamo parlare di un regista particolare, Pietro Germi. e del suo migliore film: “Un maledetto imbroglio” del 1959.

Tratto dal romanzo di Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, rappresenta un perfetto incrocio tra la tensione misteriosa del genere poliziesco e l’ironia, a volte grossolana ma sempre genuina, della commedia all’italiana. Perfettamente calato in una Roma fatta di ladri, imbroglioni e disperati non ancora sdoganati poeticamente dalla cultura di Pasolini, da personaggi che nascondono dietro la loro supposta rispettabilità terribili ambiguità ed ipocrisie, di ricatti, bugie, paure ed incontrollabili quanto improvvise esplosioni di violenza, “Un maledetto imbroglio” riesce a mantenersi splendidamente in equilibrio tra la rigida dignità e saldezza di una narrazione condotta con molto mestiere dal regista (genovese, ricordiamolo, ma famoso per rendere impeccabilmente realtà molto lontane da lui, si pensi solo alla Sicilia di “Divorzio all’italiana” – addirittura Oscar per la sceneggiatura – e “Sedotta e abbandonata”) e la vitalistica, sconclusionata ed energica eruzione espressiva dei tanti caratteristi che popolano e determinano con la loro semplice presenza il quadro filmico. Il personaggio interpretato da Saro Urzì, per esempio, pronto a rincantucciarsi in un angolo di un’inquadratura determinante ai fini del racconto per sovradeterminarla e caratterizzarla con il suo sguardo ironico, beffardo, classificante, proprio di chi crede erroneamente di comprendere appieno la situazione, posato su un personaggio interrogato che non riscuote tutte le sue simpatie. E poi i tic (la passione smodata e caricaturale per le donne del brigadiere Oreste), le idiosincrasie (la pettinatura curatissima ai limiti del sospetto dell’ambiguo Anzaloni), le manie (la materialità con cui, sempre Urzì, tira fuori dalle capienti tasche gli infiniti ed invitanti panini al prosciutto), la cialtroneria (Valdarena/Franco Fabrizi, che sembra estratto direttamente da “I vitelloni” di Fellini), l’uso dello scoppiettante dialetto romanesco per inquadrare il milieu (dialetto utilizzato anche per “Sinnò me moro”, la splendida canzone scritta da Germi e Rustichelli – e cantata dalla figlia di quest’ultimo, Alida Chelli), rappresentano l’ideale corollario di un film osservato e raccontato nei suoi più minuti particolari: teso, coinvolgente come fosse un poliziesco americano, ma, contemporaneamente, esplosivo, divertente ed ironico come una riuscita commedia. Amaro e solare, malinconico e straripante, un delle perle di quel sottovalutato regista che è stato Pietro Germi.