Dino e il mistero del manoscritto perduto

DINO CAMPANA E IL MISTERO DEL MANOSCRITTO PERDUTO.

Il mistero del manoscritto perduto Il più lungo giorno di Dino Campana, prima versione dei Canti Orfici, inizia nell’ottobre del 1913. Il poeta dopo aver raccolto poesie e prose degli ultimi dieci anni, averle trascritte in bella copia su “carta da minestra” (cit. Rosai) lasciando in sospeso solo il titolo, parte per Firenze a piedi e senza un soldo con il manoscritto dentro un sacco di iuta. Vuole farlo leggere agli intellettuali delle Giubbe Rosse, Giovanni Papini e Ardengo Soffici per un’eventuale pubblicazione.
Sappiamo della data di consegna del manoscritto da una lettera che Campana scrive a Emilio Cecchi nel marzo 1916: “Venuto l’inverno andai a Firenze all’Acerba a trovare Papini che conoscevo di nome [ il 6 o 7 di dicembre 1913]. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo in un caffè [ il Caffè Chinese, alla stazione vecchia] e mi disse che non era tutto quello che si aspettava, ma era molto molto bene e m’invitò alle giubbe rosse per la sera. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo. Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze. Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stampato sull’Acerba. Ma non lo stampò. Io partii [per Marradi] non avendo più soldi”.   
Questa è la prima delle tre consegne. Campana scrive, infatti, che l’ultima consegna del manoscritto avviene “ il giorno in cui loro [ Soffici, Papini Marinetti, Boccioni, Carrà, Tavolato, Scarpelli…] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista, incassando cinque o seimila lire ”. La serata ha luogo al Teatro Verdi di Firenze il 12 dicembre 1913.  Trascorsi una decina di giorni, scrive a Papini e Soffici: “Li prego di usarmi la cortesia di lasciare i manoscritti miei che ho consegnato a loro presso l’amministrazione di Lacerba. Un uomo da me incaricato passerà a ritirarli”.
Il quaderno de Il più lungo giorno nel frattempo è passato da Papini a Soffici che lo smarrisce durante un trasloco.
Da questo momento Campana disperato si rifugia ad Orticaia, sui monti di Marradi, e in qualche mese riscrive a memoria il libro che intitolerà Canti Orfici e che riuscirà a pubblicare grazie all’amico Luigi “Gigino” Bandini perché, come scrive a Prezzolini nel gennaio 1914, “ ho bisogno di essere stampato per dimostrare che esisto”.
A settembre, il libro è in vendita a Firenze, Soffici lo vede nella vetrina di una libreria e scrive “il mio sguardo fu attratto da un libro giallo dall’aspetto francese ma che non era francese, e sulla copertina del quale spiccava un titolo che subito mi piacque: “Canti Orfici” […]. La gioia e lo stupore di quella scoperta si confusero nell’animo mio”. Soffici legge subito il libro “da cima a fondo”, osservando  che con una lettera Campana aveva richiesto il manoscritto e che lui gli aveva risposto di non poterglielo restituire, perché era andato perso in un trasloco dei suoi libri e delle sue carte “da una stanza ad un’altra”. Questa lettera, in cui Soffici comunica la perdita del quaderno e loda allo stesso tempo il poeta, prova che Campana, scrivendo i Canti, ha fatto a meno del manoscritto de Il più lungo giorno. Sarà Campana stesso a parlare per primo della “riscrittura a memoria” dei Canti Orfici, alimentando la mitografia sul suo manoscritto per tutto il Novecento  fino ai giorni nostri.  Qualcuno dirà che il manoscritto è stato smarrito di proposito per non mettere in ombra la poesia di Soffici e di Papini che Campana considera scritta “da un contadino che avesse letto Baudelaire”.
Il libro riscritto con il nuovo titolo Canti Orfici (un omaggio ai Canti leopardiani e al poeta dell’antichità Orfeo) si apre con un poema in prosa, La notte, che è “un simbolo riassuntivo dell’inconscio, di quell’inferno dell’anima e del desiderio a cui la fantasia deve scendere, come Orfeo, per ritrovarvi l’immagine della sua verità e della sua corrosa speranza”(Jacobbi). In questo testo, fondamentale per la lirica del Novecento, del quale trascrivo la prima parte del primo capitolo, Campana abolisce la distinzione tra poesia e prosa diventando un artista innovativo e contemporaneo. Marchiato a vita come “matto” a causa dei suoi ricoveri in manicomio, è in realtà l’unico poeta maledetto italiano, un precursore degli ermetici che a lui si ispirarono.

LA NOTTE

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.

Nel 1971 il manoscritto originale viene ritrovato dalla figlia di Soffici, Valeria, nella casa  del pittore a Poggio a Caiano. Viene venduto all’asta nel 2004 per centosettantacinquemila euro.

bibl. :

Vassalli,[amazon_textlink asin=’8806205099′ text=’ La notte della cometa’ template=’ProductLink’ store=’rmagazine-21′ marketplace=’IT’ link_id=’53180e2b-1c65-11e8-9c32-318b70ae8d81′], ed. Einaudi (consigliato);

Campana, [amazon_textlink asin=’8811363713′ text=’Canti Orfici e altre poesie’ template=’ProductLink’ store=’rmagazine-21′ marketplace=’IT’ link_id=’737c8678-1c67-11e8-ad85-f34c07adb4e1′], ed. Garzanti;

Soffici, [amazon_textlink asin=’B06X3X66BL’ text=’Dino Campana a Firenze’ template=’ProductLink’ store=’rmagazine-21′ marketplace=’IT’ link_id=’37821057-1c67-11e8-a71a-df7be3636138′], ed. Vallecchi;

De Robertis, Un po’ di poesia, in “La Voce”, VII, n.2

Cecchi, False audacie, in “La Tribuna”, n.44