L’interpassività non è altro che il contrario dell’interattività: l’oggetto non ti spinge ad un’azione bensì all’immobilità passiva fruendo esso stesso della tua attività. Nel suo saggio “L’estetica dell’Interpassività” il filosofo Robert Pfaller parla del fenomeno come piacere delegato sotto forma di consumo: il godimento di qualcosa è parzialmente o totalmente delegato ad altre persone o a strumenti tecnici.
Viviamo sommersi da schermi che deregolano il nostro spazio-tempo naturale e culturale e questo è ormai considerabile Storia. Le interfacce della tecnologia e la loro intrinseca ‘interattività’ hanno pervaso la maggior parte delle nostre azioni quotidiane, diventando più che reali, poiché innescano catene di conseguenze che le legittimano nella realtà. Postare una foto invece di un’altra o fare un Ctrl+z in tempo possono cambiare le sorti di un lavoro o rovinare per sempre delle vite. La sensazione è quella di essere noi a decidere e quindi nel rapportarci con smartphone e laptop ci sentiamo di avere un ruolo attivo, di avere il controllo della situazione. Tuttavia la maggior parte delle volte tendiamo a delegare il nostro ruolo attivo alla macchina, o peggio ai media.
McLuhan in tempi non sospetti sosteneva che “I media, in quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l’uno sull’altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro” e spiegava la capacità dei media di provocare una sorta di narcosi, suscitando nell’uomo un amore per gli aggeggi che lo intorpidisce e lo rende incauto nel loro utilizzo.
Quando abbiamo delegato il nostro sentire ai media e alla tecnologia? Quanto rischiamo di diventare passivi?
È stato fin troppo facile ridursi a spettatore. Lo abbiamo fatto con la radio, con la televisione, con internet, con i social network. Il potere di questi mezzi ci ha fatto pensare di poter capovolgere l’individualismo nel collettivismo, quando invece ha sortito l’effetto contrario: esaltare la solitudine. Platone riteneva che le giuste dimensioni di una città dovessero essere determinate dal numero di coloro che erano in grado di udire la voce di un oratore pubblico. Ovviamente questa visione, difficilmente applicabile perfino alla polis greca, è impensabile già solo con la stampa, figuriamoci con l’addensamento demografico delle metropoli e l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, però può far riflettere su quanto l’ascolto attivo e la partecipazione dovrebbero essere proprie di una società pluralista.
Quello che viviamo oggi è piuttosto una ‘rivoluzione passiva’, per dirla con Gramsci, ossia un lento processo in cui si verificano cambiamenti economici, politici e sociali senza il coinvolgimento delle masse. Noi, la massa, siamo passivi, ci lasciamo trasportare, esprimiamo il nostro dissenso su piattaforme di Facebook, di Google, sentendoci soddisfatti e appagati del nostro impegno civile e politico per aver letto il titolo un articolo e averlo rilanciato nell’onda di informazioni che ci travolge ogni giorno.
L’era aurea della televisione scadente e della pubblicità, che nel nostro Paese è coincisa con un volgare ventennio politico, ci ha lasciato con la voglia di attività, di protagonismo e siamo stati accontentati: ora i social media danno a chiunque l’opportunità di esprimersi. Questo ci rende attivi e liberi? Tutt’altro, ha piuttosto canalizzato ogni attività umana – vuoi fare l’artista? Instagram, vuoi organizzare eventi? Facebook, cerchi intimità? Tinder fa per te! – lasciandoci un grande vuoto comunitario. Associazioni di quartiere? Dove? Non sai neanche chi sono i tuoi vicini.
Questa è l’interpassività, abbiamo delegato allo strumento la nostra attività, che sia relativa al comunicare, all’attività sociale e politica o alla fruizione di contenuti.
Robert Pfaller per spiegare il suo concetto di interpassività fa l’esempio del videoregistratore che finisce per esseree spettatore esso stesso del programma al posto dell’utente. Ora un esempio è ovviamente Netflix che finisce per fruirsi da solo, non fermandosi neanche per capire se qualcuno lo sta guardando: dopo 15 secondi partirà la prossima puntata, che tu stia dormendo già da ore o meno. Così è anche lo scrolling compulsivo dei social network, spesso scrolliamo passivamente, senza attività, senza veramente guardare, senza veramente pensare. È certamente un modo come un altro di estraniarsi un secondo, anche di rilassarsi, ma non rischiamo di diventare completamente passivi rispetto alle nostre battaglie quotidiane?
L’attuale situazione Coronavirus, imponendo un distanziamento sociale che già era latente da tempo, ha incrementato in modo vertiginoso l’interpassività. Ora che è fortemente sconsigliato il contatto diretto con l’altro, rimaniamo noi e i nostri mezzi di comunicazione e il confine tra utilizzare lo strumento come medium, come protesi del nostro corpo o della nostra mente, piuttosto che come transfer dei nostri bisogni comunitari, è molto labile.
Anche se può sembrare banale e allo stesso tempo piuttosto difficile in questi tempi di Covid, cerchiamo di riportare la nostra attività -sociale, politica, economica- ad una sfera reale, parlando e muovendoci nello spazio, usando i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione in modo attivo, senza farci catturare dalla rete.