100%

La sdraio

Una piccola storia vera.
Prendo il bus 44 al capolinea di Teatro Marcello, è una bellissima giornata di sole dopo giorni un po’ grigi. Seduto in uno dei posti davanti, quelli riservati ad anziani e invalidi c’è un uomo. Il mio sguardo gli scivola addosso senza metterlo a fuoco. Io prendo posto dall’altro lato della corsia, dietro l’autista. Se mi voltassi l’uomo sfocato sarebbe di fronte a me. Mi tolgo il cappotto perché il sole ha portato anche un po’ di calore, scopro che l’obliteratrice non funziona, mi siedo mentre ripenso alle belle storie di scrittori amati che mi ha raccontato a pranzo un appassionato biografo. Mi sento toccare un braccio e mi giro. L’uomo di fronte ha lasciato il suo zaino e il cappotto liso sul sedile e mi guarda con occhi supplichevoli. Parla una lingua che non conosco. Provo a dirglielo: Non capisco. Ma lui non smette di parlare, sta raccontando una storia, è evidente. Fa gesti ampi per descrivere il luogo in cui si svolge la storia e poi mi tocca di nuovo il braccio, con delicatezza, e si tocca la testa, il viso, e ammicca come se dicesse: Ti assomiglia, ha i tuoi capelli. L’uomo indossa un berretto di lana strambo come lui. Lo guardo meglio: ha gli occhi scuri, la pelle olivastra, le mani ossute, non avrà più di sessant’anni malportati, carichi di dolore. Indica la mia borsa. Non mi viene da fare altro che cercare qualche moneta nel borsellino e lo faccio. Lui prende gli spicci, ma senza dargli peso, continua a raccontare in quella lingua incomprensibile. Io traduco a senso e per me sola quel che dice, i suoi gesti mi fanno pensare a colpi di fucile, si tocca il petto in più punti, come fossero pallottole che colpiscono. Come se raccontasse quel che ha visto: una esecuzione, una fucilazione. E’ solo un attimo. La sua faccia in una frazione di secondo si trasforma in una maschera di disperazione: piange, singhiozza, scuote la testa. Poi riprende a raccontare, più pacato, nella sua lingua incomprensibile, che forse non è neppure una lingua vera. Ogni tanto in italiano dice “Cento per cento”. Lo ripete come una cantilena, a intervalli regolari. Cento per cento. Che vorrà dire? Gli hanno dato l’invalidità al 100%, è pazzo al 100% , gli hanno tolto tutto quel che aveva al 100%? Non lo so. Non lo saprò mai. Io sono sempre più a disagio. Gli do il biglietto dell’autobus, quello che ho in più. Gli do i fazzoletti di carta per asciugarsi gli occhi, perché vederlo col naso che cola potrebbe far ribrezzo a chi sale sull’autobus. Vorrei proteggerlo, ma anche ignorarlo, perché quel breve viaggio sta diventando una prova per me, il disagio di chi non può alleviare il dolore di un altro.
E penso che quest’uomo sfocato è stato anche lui bambino, forse è stato innamorato, magari padre e di certo figlio, ha accarezzato e picchiato, è stato sgridato e amato.
E poi penso che se dovessi perdere tutto, essere trascinata o trascinarmi in un paese sconosciuto, di cui non so nemmeno la lingua, non avere più nessun riferimento, non avere nient’altro che un cappotto liso, uno zaino quasi vuoto e un cappello di lana sulla testa anche se c’è il sole, probabilmente impazzirei, e racconterei al primo che incontro su un autobus quanto si può essere pazzi e soli e disperati. Senza scampo al 100%.