Pavese e le donne

Pavese e le donne

Cesare Pavese (1908-1950) ha solo sei anni quando subisce il trauma della morte del padre. Quello che però lo segna particolarmente è il rapporto con la madre, una donna dal carattere autoritario e dominante dalla quale Cesare non riceve mai una parola affettuosa o una carezza. Forse sarà questo il motivo che lo spingerà a innamorarsi sempre di donne che non l’avrebbero mai amato.
Uno dei suoi primi amori adolescenziali è una ballerina che lavora al caffè-concerto “La Meridiana” di Torino. La ragazza gli concede un appuntamento al quale non si presenta, Pavese rimane ad aspettarla per ore sotto la pioggia. Questo episodio, concluso con una pleurite che lo costringerà a letto per tre mesi, verrà ricordato anni dopo nella canzone Alice di Francesco De Gregori: ”Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. E rimane lì, a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va”.
Tina Pizzardo è la prima donna che compare nella sua scrittura. La conosce nell’inverno del 1932. Lui ha ventiquattro anni, si è laureato in lettere con una tesi su Walt Whitman e insegna nelle scuole superiori. Lei è una donna di trent’anni, laureata in matematica e fisica, appartiene al partito comunista clandestino ed è la compagna del comunista, in carcere, Altiero Spinelli. Pavese si innamora di questa donna così determinata e sicura di sé a tal punto da accettare di ricevere a casa le lettere che Spinelli le invia. Queste lettere, che verranno trovate durante una perquisizione, lo porteranno all’esilio nel borgo calabrese di Brancaleone. L’inconfondibile voce «rauca e fresca» di Tina Pizzardo la ritroviamo in alcune poesie di Lavorare stanca (1936).

Un ricordo

Non c’è uomo che giunga a lasciare una traccia
su costei. Quant’è stato dilegua in un sogno
come via in un mattino, e non resta che lei.
Se non fosse la fronte sfiorata da un attimo,
sembrerebbe stupita. Sorridon le guance
ogni volta.

Nemmeno s’ammassano i giorni
sul suo viso, a mutare il sorriso leggero
che s’irradia alle cose. Con dura fermezza
fa ogni cosa, ma sembra ogni volta la prima;
pure vive fin l’ultimo istante. Si schiude
il suo solido corpo, il suo sguardo raccolto,
a una voce sommessa e un po’ rauca: una voce
d’uomo stanco. E nessuna stanchezza la tocca.

A fissarle la bocca, socchiude lo sguardo
in attesa: nessuno può osare uno scatto.
Molti uomini sanno il suo ambiguo sorriso
o la ruga improvvisa. Se quell’uomo c’è stato
che la sa mugolante, umiliata d’amore,
paga giorno per giorno, ignorando di lei
per chi viva quest’ oggi.

Sorride da sola
il sorriso più ambiguo camminando per strada.

La loro relazione finirà definitivamente nel ’38 dopo il matrimonio di Tina con il polacco Enrico Reiser.
E’ nello stesso anno che Cesare Pavese rincontra Fernanda Pivano, studentessa di lettere, sua ex allieva del liceo classico d’Azeglio di Torino. I due si scambiano romanzi e poesie, Pavese la introduce alla letteratura americana. Pochi anni più tardi la Pivano porterà, come traduttrice, la Beat generation nell’Italia del dopoguerra. Cesare si innamora di lei, le chiede due volte di sposarlo, nel ’40 e nel ’45, ottenendo sempre un rifiuto. Le dedicherà tre poesie contenute in Lavorare Stanca: Mattino, Estate e Notturno. Fernanda Pivano si sposerà nel ’49 con l’amore della sua vita, l’architetto Ettore Sottsass.
Mattino
La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.
Nel “magnifico autunno” del 1945, Pavese conosce un’affascinante siciliana che lavora nella sede romana della Einaudi, Bianca Garufi. “Vorrei essere almeno la mano che ti protegge – una cosa che non ho mai saputo fare con nessuno e con te invece mi è naturale come il respiro”. Così Cesare Pavese le si rivolge, in una lettera del 21 ottobre 1945. Sembra la sua donna del destino, la ritroveremo nei Dialoghi con Leucò del 1947 (“Leucò” è la traduzione greca del nome Bianca), l’opera più contestata, ma più amata dall’autore, in cui Bianca compare nelle vesti della dea Leucotea. Insieme scriveranno il romanzo “Fuoco grande” dividendosi i capitoli, pubblicato incompiuto nel 1959.
Compone per lei le poesie raccolte ne “La terra e la morte”, uscite sulla rivista Le Tre Venezie. Dal diario di Bianca Garufi “Ricordo: scrisse la prima sulla poltrona della mia camera da letto; io ero sul letto e dormivo. Poi mi svegliai e lui lesse: “Terra rossa, terra nera – tu vieni dal mare – dal verde riarso dove sono parole antiche e fatica sanguigna… tu ricca come un ricordo, certa come la terra, buia come la terra, frantoio di stagioni e di sogni”. Mi piacque tanto e forse lo amai poeta per quel giorno. Io ero allora, davvero, buia come la terra. Povero Pavese, morto per Tina, per Fernanda, per Bianca, per Costanza. Quale di queste donne poteva salvarlo?” (13 aprile 1951).
Nel capodanno del 1950 conosce a Roma, in casa di amici, le attrici americane Constance Dowling e sua sorella Doris. Doris è un’attrice già affermata perché ha recitato nel film Riso amaro, Costance, invece, ha sulle spalle alcuni insuccessi professionali e una lunga storia finita male con Elia Kazan. Pavese si innamora di lei, si frequentano, ma lei ha una relazione con l’attore Andrea Checchi e progetta il ritorno in America.
In una lettera all’amico Davide Lajolo, Pavese chiama la Dowling “allodola” e scrive: “Essa si è fermata presso il mio covone di grano soltanto perché si sente sperduta, ma se ne andrà presto, lo sento, sentirò sbattere le sue ali, senza neppure la forza di alzare un grido per richiamarla”.
Gli ispirerà le poesie che scrive tra l’undici marzo e il dieci aprile del 1950 e che verranno trovate alla sua morte in una cartella, sulla scrivania dell’ufficio all’Einaudi. Di suo pugno sul frontespizio la scritta “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi” e con questo titolo verranno pubblicate postume da Einaudi nel 1951.

To C. from C.
You,
dappled smile
on frozen snows –
wind of March,
ballet of boughs
sprung on the snow,
moaning and glowing
your little “ohs”-
white-limbed doe,
gracious,
would I could know
yet
the gliding grace
of all your days,
the foam-like lace
of all your ways –
to-morrow is frozen
down on the plain
you, dappled smile,
you, glowing laughter.

A C. da C.
Tu,
screziato sorriso
su nevi gelate –
vento di Marzo,
balletto di rami
spuntati sulla neve,
gemendo e ardendo,
i tuoi piccoli “oh!” –
daina dalle membra bianche,
graziosa,
potessi io sapere
ancora
la grazia volteggiante
di tutti i tuoi giorni,
la trina di spuma
di tutte le tue vie –
domani è gelato
giù nella pianura –
tu, screziato sorriso,
tu, risata ardente.
(Traduzione di Italo Calvino)
Il 17 aprile del 1950 le scrive in inglese una lettera drammatica “Carissima, non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute a te e se ne vanno con te. (…)”
La notte tra il 26 e il 27 agosto 1950, in un albergo di Torino, si toglie la vita. Avrebbe compiuto 42 anni il 9 settembre, la stessa età della morte del padre. E’ al culmine del successo letterario, ha appena vinto il premio Strega, ma ha un “vizio assurdo” che lo tormenta da tempo. Lascerà due righe sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò chiedendo di non fare troppi pettegolezzi. E pettegolezzi ce ne saranno, tra questi l’ipotesi di un Pavese sessualmente impotente. “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla” (da Il mestiere di vivere).