“Il nome della rosa” – di Gabriella Montecalvo

Il nome della rosa al teatro argentina

Per ricordare Umberto Eco ad un anno dalla sua scomparsa. La prima versione teatrale di un capolavoro della letteratura italiana del secondo novecento, tradotto in ben 47 lingue, premio Strega nel 1981, reso ancor più famoso dal film che vede Sean Connery protagonista, diretto da Jean-Jacques Annaud, nel 1986. La scena, rimasta ancor buia, si apre con il frate ottantenne che ripercorre una serie di fatti ed efferati omicidi, in un’abbazia dell’Italia Settentrionale, nel XIV secolo, nel pieno della lotta tra Chiesa ed Impero. Il lavoro portato in scena dal drammaturgo Stefano Massini si snoda nella dimensione del ricordo. Il frate benedettino diventa in scena un io narrante adolescente (perfetto per un Glauco Mauri), intento a seguire gli insegnamenti del colto frate francescano, Guglielmo da Baskerville, chiamato ad indagare su una serie di misteriosi delitti. Forse ed immagino non sia facile liberare la mente di un best seller e di un eccellente adattamento filmico ma Leo Muscato riesce quasi a superare quasi una sfida, dirigendo in un’opera impeccabile bravissimi 13 attori che si muovono in una scena portata al pubblico come una scatola teatrale apparentemente claustrofobica ma che rende molto bene la dimensione spaziale e temporale attraverso codici, copertine di libri, pergamene che richiamano la biblioteca, teschi ed ossa per riprodurre l’ossario, vetrate e rosoni a rappresentare la cappella, un magnifico effetto prospettiva che riproduce la molteplicità delle celle, il tutto in una struttura ascendente organizzata a soppalco. Non mancano bellissime videoproiezioni. Ottima rappresentazione del contesto storico, religioso e sociale attraverso una recitazione pacata ma dal ritmo serrato, il cui retrocontenuto sono i diversi modi di concepire la fede, come verità assoluta, racchiusa all’interno della congregazione di frati o libera acquisizione della mente umana.  Un lavoro superbo che varrebbe la pena vedere due volte